La storia o le stories
La storia o le stories.
Prima che si aprisse il sipario ufficiale, sui media e sui social le Olimpiadi erano già “iniziate” con il processo alle intenzioni di Sinner, cercando di capire se il suo forfait fosse figlio di un legittimo scrupolo di cura nei propri confronti (che non tutti sono in grado di avere verso se stessi, conciliando sacrificio e consapevolezza) o di una trascuratezza un po’ snob (nonostante le sue parole) rispetto all’evento più importante per ogni sportivo (o forse non proprio per tutti). Prima che si chiudesse il sipario ufficiale, le abbiamo poi viste ospitare il processo alle intenzioni di Tamberi, cercando di capire se la sua ostinazione e ostentazione fosse una perversione sportiva che conduce il fisico oltre quanto legittimo, per quanto legale, o fosse una sana possessione dello spirito olimpico (con alcuni inevitabili rischi) che si fa testimonianza esemplare al cospetto di chi quello spirito non lo ha o non lo sente. E così, anche l’evento che ogni quattro anni invade con il suo fascino contraddittorio le nostre vite è finito nel grande tritacarne della polarizzazione, ormai lo sport che tutti pratichiamo: bianco o nero, tertium non datur.
Poi capita che, trascorsi pochi giorni dall’inizio effettivo delle Olimpiadi, a bordo vasca, assistiamo a una intervista che sarebbe divenuta di lì a poco virale. Benedetta Pilato, giovanissima campionessa di nuoto, è appena arrivata quarta, a un centesimo dal podio. Alla domanda della giornalista di Raisport, che cerca di capire e far parlare magari quella che si crede la sua delusione, lei risponde – con una naturalezza insieme commossa e sorridente – che “poterlo solo sognare (il podio) è stato un onore e un privilegio”. Parole talmente inaspettate e fuori dalla nostra comune logica ordinaria che sorprendono persino chi la sta intervistando, la quale, a un certo punto, incredula, non sa se deve provocare ancora una ragazza che si sta raccontando qualcosa di non vero per consolarsi o deve vergognarsi lei per prima perché non riesce a comprendere come mai in quella giovanissima atleta prevalga la soddisfazione sulla delusione.
Qualche giorno dopo – manca oramai poco alla fine delle Olimpiadi –, a bordo pista, assistiamo a un’altra intervista interessante, stavolta passata più sottotraccia, destando meno scalpore. Mattia Furlani, giovanissimo lunghista italiano, fresco vincitore del bronzo olimpico, si trova a rispondere – guarda il caso – alla stessa giornalista di Raisport che stavolta celebra qualcosa di storico per l’atletica italiana. Dopo una disamina tecnica, Furlani dice: “per le cose ci vuole del tempo. L’anno scorso a Budapest sono arrivato diciottesimo e ora festeggio un podio olimpico. Bisogna dare tempo e fiducia ai giovani e bisogna dare tempo per creare il processo alle cose”. Il tutto con una maturità, serietà e serenità che davvero lasciano interdetti.
Due diciannovenni, d-i-c-i-a-n-n-o-v-e-n-n-i, che mandano un messaggio gigantesco ai loro coetanei e alla generazione degli adulti, dal profondo delle loro diverse storie e nel pieno di due diversi momenti. Benedetta è esplosa giovanissima, con risultati da enfant prodige e un comprensibile periodo di ripensamento di sé dopo qualche difficoltà; di Mattia tutti dicevano che sarebbe esploso, già da prima di questo exploit, che poi non è tale, e che ha doti fisiche e mentali per fare un pezzo di storia del suo sport. Ma fermiamoci su quei due momenti e sulle loro parole; parole che ti aspetti siano agli antipodi, essendo di “ha perso” e di chi “ha vinto”. Cosa le accomuna? Qualcosa che nella nostra abitudine alla polarizzazione trascuriamo: l’attenzione al processo più che al momento, e cioè a quel che c’è dietro e prima di quell’istante in cui tutto è finito. Quella è la dimora del senso. Peccato che il processo non si possa fermare in una fotografia, che non lo si riesca a instagrammare. La giornalista vorrebbe consegnare al pubblico una story. Benedetta e Mattia le restituiscono la loro storia, non instagrammabile.
E se il problema fosse lì? Abbiamo tutti ossessivamente bisogno di un istante e di un fermo immagine che dica tutto, senza sfumature, e a partire da quello giudicare qualsiasi cosa, bianco o nero; spesso poi ci basta che una foto altrui celebri un momento di festa, vacanza, gioia per giudicare la vita degli altri bellissima e migliore della nostra, perfetta e senza ombre, rendendoci incubatori di frustrazione, invidia e risentimento, divenendo i primi a dimenticare che quella vita, quelle vite, sono fatte di sconfitte, tristezze, malinconie, impegni, dedizioni, sacrifici, fallimenti. Ma noi ci siamo abituati così: la vita va instagrammata, perché va fatto vedere a tutti quel momento assoluto in cui va tutto bene, in barba al processo e alla storia.
Poi compaiono due ragazzi, che ci spiazzano: una, nell’istante in cui non riesce a salire su quel podio per raggiungere il quale ha faticato con sacrificio per quattro anni, ci dice di essere felice: non “lo stesso” o “nonostante”, ma proprio per ciò che ha ottenuto; l’altro, colui che la medaglia l’ha agguantata, ci dice che bisogna rispettare i tempi e preferisce mettere l’attenzione sulla strada fatta che sul traguardo raggiunto. Così, di colpo, entrambi ci costringono a fare i conti con il sorriso quando tutti si aspettano, anzi pretendono, delusione per il risultato e con il processo quando tutti si aspettano, anzi pretendono, esaltazione del risultato.
Non ci sta una vita intera in un traguardo, non si riduce una vita intera alla sua “instagrammazione”, perché dietro, “nel mezzo”, come scrive Niccolò Fabi, “c’è tutto il resto.
E tutto il resto è giorno dopo giorno. E giorno dopo giorno è silenziosamente costruire. E costruire è sapere. È potere rinunciare alla perfezione”. Eccola la grande lezione di questi due diciannovenni, che ci chiedono di non ridurli a ciò che la rappresentazione social delle loro vite vorrebbe e a non farlo nemmeno con le nostre e quelle altrui.
Luca Alici
In&Out.
Parole, pensieri, storie.
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