“Ringraziare desidero”

“Ringraziare desidero”

La temperatura è decisamente fresca rispetto a quella degli ultimi giorni (oserei dire quasi “da maglioncino”, se non fosse che, circondato come sono dalla scorza robusta di chi abita da queste parti – tra poco scoprirete quali – e dal fisico temprato di molti rugbisti – tra poco capirete perché –, mi trattengo e resisto stoicamente). L’ambiente è davvero gradevole: un prato, delle piante, una sorta di teatro naturale che va scovato, scoperto, raggiunto, le stelle sopra di noi e alle spalle i ruderi di una torre che le luci della notte contribuiscono a rendere ancora più affascinante. Manca una cosa sola, che ora arriva: il corpo, il volto, la voce, la storia di Diego Dominguez, la stella mondiale del rugby, che sale sul palco, ospite del festival “Storie”, in quel di Montefalcone.
Non ci sono parole da spendere, se non le sue, per dire chi è (non ce n’è bisogno o, in caso, rischiano di essere riduttive). Non si può sintetizzare la ricchezza e la varietà del modo in cui, per lui, il suo sport ha dato forma alla sua esistenza e continua a farlo (dai campi alle carceri alle zone urbane che chiedono rigenerazione). Ma porto a casa un passaggio, tra i molti, forse per ragioni autobiografiche – che però al momento solo il mio inconscio conosce –, o forse per la prorompenza semplice di parole detonanti nella loro naturalezza, che mi appresto a riscrivere su questo foglio bianco, dopo averle fissate in testa. A un certo momento, infatti, Dominguez consegna a noi tutti questa frase: “Se non ci fossero loro, tu non potresti giocare e quindi devi ringraziarli”. Dopo un momento di stordimento, realizzo di aver capito bene: sta parlando degli avversari, di coloro che nella carriera di uno sportivo si frappongono tra sé e la vittoria, tra sé e i propri sogni, tra sé e le proprie sicurezze.
“Certo – interviene subito nei miei pensieri il folletto spavaldo del Cinismo, che mi abita, così come Gioia, Ansia, Tristezza, Rabbia abitano Riley di Inside Out (e tutti noi) –, facile a dirlo per chi ha smesso, ha raffreddato i bollenti spiriti dell’agonismo, ha messo a distanza le sconfitte”. “Ma come fai a pensare una cosa così? Dovresti vergognarti! – ribatte subito il folletto più discreto della Rettitudine che stavolta però alza la voce, offeso da quel che ha ascoltato – Ricorda che stai parlando dello sport che ha nel suo dna il terzo tempo, la fratellanza, la condivisione”. Li lascio un po’ sfogare, poi li faccio tacere e alla fine li ringrazio perché questa loro dialettica è la prova di quel che Dominguez ha detto un attimo prima e così mi ritrovo a pensare che, in quelle parole, c’è una grande scintilla di verità, ben oltre il rugby, ben oltre lo sport.
Ringraziare, in fondo, non significa mica amare, però significa rispettare. E rispettare vuol dire riconoscere un posto unico, una dignità specifica, una ragione di senso. L’unica via per cui persino uno scontro si possa fare incontro. E questo vale fuori di noi, così come vale dentro ognuno di noi, al cospetto di quegli avversari che forse temiamo di più, che ci portiamo dentro: le nostre paure, le nostre fragilità, le nostre insicurezze. Ringraziarli, anche in questo caso. Ma non per una forma malata di masochismo o ingenua di dolorismo. Semplicemente perché vanno rispettati e riconosciuti, per guardare e guardarsi in modo diverso, per vedere le proprie crepe e non caderci dentro, per chiedere aiuto ai propri compagni e non pensare di farcela da soli o con un mero appello alle regole del gioco. Serve tempo, serve un percorso, serve imparare a vedere dall’alto le tappe della propria vita per poter dire, con sofferta serenità, “se non ci fossero stati, se non ci fosse stato questo confronto, sarei stato diverso, forse peggiore”. Ma serve anche allenare un certo tipo di sguardo fin da giovani.
Alla fine del tiratissimo quinto set che ha consegnato alla nazionale italiana di pallavolo l’accesso in semifinale alle Olimpiadi di Parigi, in una partita in cui i ragazzi di De Giorgi si sono affacciati per un attimo al di là della soglia del dramma sportivo e poi hanno trasformato questo rischio in trionfo, il centrale Galassi si è fermato ad abbracciare il suo ex compagno di club, Ran Takahashi, in lacrime: una immagine iconica, che chiede contemplazione. Possiamo davvero pensare che lo sconfitto sia in grado di ringraziare il vincitore, che gli ha negato un risultato storico e un sogno che si coltiva fin da piccoli? Non è utopia o forse follia?
Senza dubbio nell’immediato sì, ma probabilmente, a distanza di tempo, quando il senso di quel che è successo diventerà più chiaro o magari non si comprenderà fino in fondo, allora diventerà possibile (non scontato), perché, senza l’avversario, quella gara, quelle lacrime, quello scavo interiore, quella relazione spinta così all’estremo con i propri limiti, con i propri compagni, con i propri avversari “semplicemente” non ci sarebbero stati e ci si accorge che qualcun altro ha contribuito a renderli possibili. A quel punto le parole di Dominguez si avvereranno: non sarà il risentimento ad avvelenare il ricordo di quel momento, ma sarà la gratitudine a conciliare quasi miracolosamente incontro e scontro.

Luca Alici

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