E se i sogni fossero fatti della nostra stessa sostanza?

E se i sogni fossero fatti della nostra stessa sostanza?

26 luglio 2024. Gli occhi sono su Parigi. Si rinnova il fascino delle Olimpiadi. Per la trentatreesima volta nell’età moderna. Sul divano, in famiglia, ci godiamo lo spettacolo di apertura, “comunque” unico, suggestivo e folle, che quest’anno è portato fuori da uno stadio, dentro le vie di una città, sopra le acque di un fiume. Prende forma un gigantesco sogno collettivo che entra nella storia quotidiana del mondo, dei suoi conflitti, delle sue frenesie e prova a “fermarlo” per un paio di settimane.

Quest’anno, per chi vive tra Grottazzolina e Montegiorgio (ma non solo) c’è un piccolo/grande stimolo in più. A far parte di quel villaggio globale di atleti c’è un giocatore che sta per disputare la stagione in Superlega con i colori della Yuasa: la prima nella massima categoria per noi, la prima in Italia per lui, la prima nella storia cinquantenaria del volley da queste parti in cui un tesserato è anche un olimpionico. Scatta allora, mentre assistiamo alla cerimonia, il giochino di aspettare la delegazione canadese per vedere (se e) chi di noi riesca a individuarlo e, proprio mentre siamo lì per lì per dirci che la sfida è divertente ma impossibile, lo vediamo. Per un frame, immortalato mentre con il suo cellulare sta riprendendo qualcosa di cui deve avere traccia per sempre. “Eccolo, eccolo”. E mentre il “nostro” Denny Demyanenko scompare e le riprese tornano sulle luci della città e sugli altri volti, diversi e bellissimi, di tutte le nazioni, quel suo essere lì mi pare dica qualcosa di speciale.

Un piccolo paese (il nostro), un grande Stato (il suo), il mondo convocati nella città della grandeur e dell’amore: il piccolo e il grande, il singolo e l’umanità intera, differenze di culture e provenienze che si toccano, sorridendo (almeno per un momento). Una sospensione globale della cruda realtà, un’immersione generale in un sogno collettivo.

Sogno e vita hanno un legame stretto, confidente, tanto che la vita spesso affida al sogno tutto quello che fa fatica a dirci, trovando vie alternative per comunicarlo, e il sogno spesso segna il corso della vita, indirizzandola, svelandola, rendendola viva. I sogni “ad occhi chiusi”, che facciamo ogni notte, anche quando non li ricordiamo, sono i nostri “pensieri notturni”, hanno un’enorme carica simbolica e spesso costituiscono il viaggio segreto nella nostra soffitta per esplorare tutto quello che ci abbiamo confinato (paure, ansie, aspettative, frustrazioni). Ma ci anche i sogni “ad occhi aperti”, quelli che coltiviamo fin da bambini, che magari non si realizzeranno mai, che restano per sempre o cambiano crescendo, perché le condizioni di vita disegnano altro da sognare. Viviamo però un tempo disabituato a farci coltivare sogni: le nostre vite senza pause, sempre attive, 7gg/7gg, 24h/24h, in una specie di veglia globale e senza soste non ci lasciano tempo oppure temono che i sogni possano rovesciarsi in incubi o semplicemente che non si avverino: abituati a sentirci dire che siamo quello che realizziamo non lo sopporteremmo.

Ci sono però momenti in cui storia e sogno si toccano: sono attimi, o qualcosa di più, mirabili, privilegiati, scintillanti. Vale per i sogni “ad occhi chiusi”, quando “da soli” ci capita di vivere qualcosa che ci riaccende un vecchio sogno e ce ne svela il senso, o il contrario. Vale per i sogni “ad occhi aperti”, quando il sogno si fa storia e la storia accoglie il sogno, concede realtà a quel che sembrava confinato nell’immaginazione. Non succede sempre, può addirittura non capitare mai, ma quando avviene è speciale, e occorre esserne all’altezza.

Ma spesso, appunto, questo istante folgorante non si realizza: per esplorare i sogni “ad occhi chiusi” abbiamo bisogno di qualcuno o semplicemente non vogliamo; per sopportare che non si realizzino quelli “ad occhi aperti” dobbiamo ricordarci che una parte significativa di quel che siamo sta già in ciò che siamo capaci di sognare, anche (talvolta soprattutto) se quel sogno non si realizza.

Demyanenko ha realizzato un sogno, come un sogno, pochi mesi prima, lo avevano realizzato tutti coloro – staff, giocatori, dirigenti, tifosi – che da lì a poche settimane lo avrebbero accolto in terra marchigiana. Nella sua storia personale è successo, come in quella delle comunità di Grottazzolina e Montegiorgio. E ora? Ora tocca esserne all’altezza: capire cosa quel sogno custodiva e continuare a sognare. E chi non lo ha visto realizzare? Faccia lo stesso. Continui a sognare per scoprire se stesso, perché i sogni in quanto tali custodiscono una verità importante di noi, consentono di esplorarci, senza alcuna pretesa o necessità che diventino realtà.

Ecco ciò che di speciale mi aveva consegnato quel frame: Danny, in quell’attimo – mentre ha avuto su di sé gli occhi del proprio Paese e del nostro paese, dicendo con la sua presenza che siamo cittadini del mondo, umani tra gli umani, e che abbiamo la grande fortuna di poterci incontrare, di essere collegati e capaci di relazione tra culture, storie, persone, e dicendo a noi che in qualche modo Grottazzolina e Montegiorgio possono essere a Parigi e Parigi può essere sulle sponde del fiume Tenna – mi ha persino ricordato il valore del sogno. Di quelli che si schiudono e si “realizzano”, così come di quelli che continuiamo a coltivare, o meglio a seminare. In un tempo come il nostro, ossessivamente centrato sull’istante e sul suo godimento, senza futuro, sognare vuol dire riconoscere non solo che non siamo quel che abbiamo, ma che non coincidiamo neppure con quel che facciamo. Perché in fondo, come amava dire Danilo Dolci, “ciascuno cresce solo se sognato”.

Luca Alici

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