Contorno Occhi
CONTORNO OCCHI
Un braccialetto, anzi tanti braccialetti. Una penna, mamma mia quante penne. L’inizio e la fine di uno dei pomeriggi che entrano di diritto nella storia della pallavolo di Grottazzolina, Montegiorgio e tutto il nostro territorio è di fatto incorniciato da questi due elementi: il braccialetto, nato per decorare, che magicamente si trasforma nell’espressione di una identità (in quel pensiero, nell’averlo avuto sta l’essenza della M&G) e nel segno di una amicizia (chi, se non dei bimbi potevano ricordare a degli atleti che prima di tutto viene l’incontro?); la penna, forse destinata a diventare un decoro, considerato quanto poco la usiamo, che magicamente torna al suo antico splendore, e cioè lasciare un segno, tracciando visibilmente i contorni di uno stile, di una disponibilità, di una generosità (che dire di un ragazzo che resta mezz’ora a disposizione delle richieste di tutti coloro che gli chiedono quell’autografo, e anche un selfie?).
Quel che è successo in campo si sa, è stato raccontato e in queste poche righe non ci interessa. Quel che è successo prima e dopo invece ci parla e non possiamo trascurarlo. I ragazzi del minivolley decidono di regalare a giocatori e staff di Trento il braccialetto dell’amicizia, da loro realizzato. Alessandro Michieletto decide di giocare da solo uno scampolo ulteriore di partita, a partita finita, percorrendo tutto il campo per firmare autografi e scattare foto. Se perdiamo questi due fermo-immagine rischiamo di perdere il senso di tutto. E quindi anche dello sport.
Perché dei ragazzini dovrebbero togliere del tempo all’allenamento per realizzare un braccialetto e portarlo a dei campioni, che non è detto che conoscano o riconoscano come idoli? Perché un campione della nazionale italiana dovrebbe togliere del tempo al meritato riposo dopo una partita maiuscola per firmare autografi e scattare selfie con ragazze e ragazzi (ma non solo)? Perché? Non è dovuto, non fa parte di un contratto. Non è lo spazio ordinario dell’attività sportiva di giovanissimi e non è un terzo tempo della gara di un atleta. Eppure, succede. E succede grazie a un doppio comune filo rosso, che – invisibile – magicamente si è intrecciato attorno a questi due momenti, prima e dopo.
Il primo filo è il riconoscimento del bene che c’è in quegli incontri per quanto brevissimi, un bene relazionale, che non si tocca, non diventa merce, non si strumentalizza, più lo si usa e meno si consuma: nel dono di quei braccialetti così come nel dono di un autografo, di una foto, di un istante sta il bene di uno scampolo di relazione, di un incontro che però non ha secondi fini, che si vuole vivere, anche se durerà poco, perché regala un’esperienza piena; non serve ad altro, ma vale “solo” in sé, per sé; il bene della relazione non strumentale, il bene della scintilla che si accende quando si sfregano sogno e realtà, il bene e il bello di quell’istante. Il secondo filo trasforma i centimetri in età, e così tutta la distanza che allontana un bimbo e una bimba dalle altezze siderali di un atleta è esattamente la stessa distanza che c’è tra il sogno di quei bimbi e di quelle bimbe di incontrare un campione e la possibilità di diventarlo loro per primi e per prime; ma è anche la distanza che si rischia di costruirsi tra quel campione, affermato, e il suo “io” bambino. Quei braccialetti non dicono “diventerò come te”, ma dicono “sei stato questo per me”; quegli autografi non dicono “diventerete tutti come me”, ma dicono “non dimentico che ero come voi”.
A cosa serve quel braccialetto? A nulla e proprio questo lo rende estremamente prezioso, perché sancisce il pensiero di un dono, il simbolo di una intenzione di relazione, il desiderio di un incontro. A cosa serve un autografo? A nulla e questo lo rende estremamente prezioso, perché sancisce un tempo donato, il simbolo di una gratitudine verso chi mi riconosce degno di quella richiesta, il desiderio di stare e restare in un piccolo spazio di vita altrui. Che ci dice quel braccialetto? Che non tutti diventeranno campioni, ma che i campioni si abbassano all’altezza di un bimbo per ricevere un dono che rovescia le parti: ora sono i campioni a dire grazie e non viceversa. Che dice quell’autografo? Che si può diventare campione, ma se si dimentica il proprio sguardo da bambino verso i campioni, forse non lo si è diventati fino in fondo.
E quando lo sport ci ricorda che tutto questo è possibile, nella misura in cui lascia e predispone lo spazio perché possa accadere, allora ci offre il meglio di sé, ricordandoci che lo spettacolo non è solo quello in campo.
Luca Alici
In&Out.
Parole, pensieri, storie.
Dentro e fuori dal campo.