Jack Burton, e il sapore amaro della sconfitta.
E’ passata una settimana da quel maledetto match esterno che ha sancito la fine della stagione della Serie C femminile grottese. “Maledetto” in senso letterale, perché in quel di Amandola sabato scorso è calata una maledizione che, ad una squadra che aveva già dato in termini di sfortuna, ha tolto anche il punto di riferimento principale, ovvero la regista Anna Patrassi, ko durante il secondo set (poi comunque portato a casa con la giovane Amorosi a rilevarne egregiamente la pesante eredità) per un guaio muscolare.
Non è bastata dunque una settimana per sbollire la rabbia, pur senza nulla togliere alle meritevolissime avversarie. Il commento finale della stagione, però, stavolta lo lascio a chi la squadra l’ha seguita sempre durante la stagione, ovvero la “penna” sagace ed eccellente di Fabio Verducci: nessuno meglio di lui può “fotografarne” meglio andamento ed epilogo.
Un racconto che può essere racchiuso interamente proprio in una foto, che ritrae Anna sorretta dalle compagne al momento del saluto finale; proprio lei che sino a quel momento aveva guidato le altre prendendole per mano.
Ripartiamo da questa foto. Buona lettura!
AOH! REGAZZI’!
È un intercalare che da giovani, abbiamo sentito tutti affibbiarci dagli adulti.
Generalmente lo si usava per i maschi, che facevano casino coi palloni nelle piazze, nei campetti, arrecando “disturbo” a chi voleva giocare a carte o non serbava più quella scintilla preziosa della spensieratezza, tipica dell’adolescenza.
Le ragazze sono sempre state più tranquille, o per lo meno era ciò che più facilmente traspariva. Inesorabilmente i tempi cambiano e con essi mutano gli atteggiamenti e le percezioni delle persone che man mano crescono; e contemporaneamente anche le attitudini delle nuove generazioni.
Chissà lo stupore nello sguardo di quei signori di prima, alla vista di un gruppo di giovani ragazze chiassose in mezzo ad una piazza, con una rete improvvisata.
Sembra lontano nel tempo il ricordo della gara 2 dei playoff a Brugherio, quando si è interrotto il bellissimo cammino della squadra di A3, che è uscita a testa altissima dopo aver disputato un campionato da prima della classe bissando il percorso dell’anno precedente.
Pochi giorni fa è calato il sipario anche per la Serie C femminile in quel di Amandola, dove oltre alla forza del padrone di casa si è dovuto fare i conti con l’infortunio di Anna Patrassi durante il secondo set. Che si è aggiunto al precedente incidente in allenamento occorso a Francesca Mastrovito.
A voi, il nostro ringraziamento e augurio di pronta guarigione.
Il campo ha sentenziato un amaro verdetto per le nostre ragazze, e non starò qui a tessere le lodi sull’importanza di partecipare, sull’impegno, sull’esperienza e sulla maturazione che anche una sconfitta può dare; perché se è vero che vincere aiuta a vincere, perdere aiuta a stringersi forte e a fare gruppo.
Belle parole senza dubbio; nobili parole e nobili intenti quelli di trovare bellezza nella sconfitta, insegnamenti da trarre per migliorare, comprendere gli errori fatti.
La verità è che perdere brucia.
Non conosco nessuno che assaggiando l’amaro calice della sconfitta lo abbia trovato di proprio gusto a tal punto da volerlo trangugiare.
E se lo conosceste voi e me lo presentaste, io vi presenterei un bugiardo.
Il buon Pierre de Frédy barone di Cubertin ha affermato che l’importante è partecipare, non vincere…
AHO!!! REGAZZI’ !!!
Facciamo a capirci: a perdere ci si incazza! E non poco! E non deve essere altrimenti.
Un po’ per la rabbia (agonistica), un po’ per la fatica o la voglia di vincere che non sono state sufficienti. Certo, non facciamone una tragedia; facciamo sbollire la rabbia e la delusione, e guardiamo avanti.
Di questa serie di incontri resterà impressa l’immagine delle espressioni delle giocatrici, serie, concentrate. Dovessi descriverla efficacemente con due parole, direi “LA TIGNA”.
Una espressione gergale che usiamo per descrivere la testardaggine con cui facciamo qualcosa a testa bassa, finché non si arriva al risultato prefissato.
Leggere il linguaggio del corpo è una faccenda assai complicata; si presume che vedere una persona a braccia conserte, questi debba per forza dare un segno di chiusura mentre potrebbe semplicemente avere freddo o trovarsi comodo in quella posizione.
Forse il contesto può aiutare a capire quello che una espressione non verbale vuole comunicare, specialmente se chi guarda non è parte della scena, ma riveste il ruolo di osservatore; ancor meglio se invisibile agli occhi degli attori o attrici coinvolte.
Francamente non ho i mezzi tecnici né la preparazione per capire se quel che vedevo in campo fosse giusto o sbagliato; se è meglio prepararsi in un modo o in un altro; se quella giocata sarebbe stata più efficace effettuata in maniera differente, o se è solo che a giochi fatti siamo tutti bravi a dire cosa si sarebbe potuto fare meglio.
Quello a cui abbiamo assistito, con un po’ di fantasia ed immaginazione, è una serie di battaglie nelle quali un drappello di giovani donne, con fare battagliero, ha aspettato il colpo avversario per ribatterlo più forte possibile.
Sfrontate, senza paura o timore.
Spavalde, con lo sguardo fisso al di là della rete ad aspettare l’avversaria a cercarle in mezzo al campo, come un guanto di sfida lanciato davanti a tutti. Ricorda tempi di poemi epici e di miti antichi, nei quali gli eroi si fronteggiavano a viso aperto, incuranti delle conseguenze.
I racconti antichi solitamente narravano le gesta di eroi uomini; anche Omero raccontando delle donne, ne descriveva le attitudini “più consone per l’epoca”, grazia e bellezza per lo più. Spesso usando similitudini paragonandole a delle Dee, come nel caso di Nausicaa immaginata nelle vesti di Artemide, cacciatrice.
Sono maturi i tempi per cui questa visione dell’altra metà del cielo possa finalmente essere lasciata alle spalle, volgendo lo sguardo verso un presente ed un futuro più giusto, equo e paritario in ogni ambito della vita.
Certi film possiedono il dono di stupire ogni volta che li si guarda, e di far rimanere impressi dialoghi, scene, personaggi.
E, cosa ancora più interessante, di essere una fonte di citazioni che con un po’ di creatività puoi applicare a situazioni della vita quotidiana.
C’è la scena finale di un cult, in cui Kurt Russel guida il suo camion dopo una serie di vicissitudini incredibili, dispensando consigli inutili con fare da uomo di mondo, che le ha viste tutte.
Alternando citazioni serie e altre romanzate mentre parla al baracchino durante una notte buia e tempestosa, quando la pioggia viene giù in gocce pesanti come piombo, i fulmini lampeggiano e i tuoni fanno tremare i pilastri del cielo, il vecchio Jack Burton guarda l’occhio del ciclone e dice: “Mena il tuo colpo più duro amico. Non mi fai paura”
La strofa di Rimmel “e qualcosa rimane, tra le pagine chiare e le pagine scure ” si addice alla perfezione a questo racconto.
Resta quell’immagine degli occhi umidi e delle lacrime a fine partita per quel traguardo sfumato, segno di una delusione cocente, che solo chi desidera davvero conosce.
Ragazze e ragazzi innamorati di uno sport che non è mai solamente un gioco. Le passioni sono così: fuochi sacri che avvampano nell’animo di chi le prova, e scaldano i cuori chi è lì a guardare.
Resta anche l’immagine di una nuova giocatrice, buttata nella mischia qualche partita fa, che un po’ timorosa entra in campo prontamente rassicurata dalle compagne. Ed è una bella immagine che ci deve far guardare il domani con nuove speranze.
E’ stato detto che il mondo è dei poeti, gli altri sono solo figuranti.
Allora io affermo che quel rettangolo di gioco è un palcoscenico, e voi siete le protagoniste di una opera di cui scriverete giorno dopo giorno, atto dopo atto, la trama ed il finale.
Fabio